Le ore invisibili di David Mitchell

Un’adolescente inglese alle prese con il primo amore, in rotta con la famiglia e in fuga da casa.

Uno studente universitario, iscritto a una delle più nobili istituzioni, inglesi, che non è affatto ciò che sembra. Anzi, che è molto di più e di peggio.

Flashforward, i due personaggi si incrociano, nel futuro immediato

Flashforward ancora, e troviamo la ragazza, ormai donna, al matrimonio della sorella, ma la osserviamo dal punto di vista del suo compagno, un reporter di guerra che lei ritiene affetto da una vera e propria dipendenza da adrenalina.

Uno scrittore di mezza età, con un brillante avvenire alle spalle, intento ad affrontare la stroncatura del proprio nuovo romanzo da parte del critico di maggior peso.

Una donna, nata nel 600 d.C., ma che è arrivata fino a noi, perché ha la capacità, comune a un’altr manciata di persone sue amiche, di morire e rinascere nel corpo di un bambino 49 giorni dopo la propria dipartita. Una donna, si diceva, impegnata anche nella lotta contro degli assassini seriali immortali, che traggono dalle loro vittime l’energia necessaria ad alimentare la loro immortalità.

Questi sono i protagonisti dei capitoli in cui è diviso il libro che sto leggendo, frutto della mente e della penna di quel grandissimo scrittore che è David Mitchell.

Si tratta di capitoli che in alcuni casi propongono una storia compiuta e in altri presentano la storia della protagonista del romanzo, che è l’adolescente conosciuta nel primo capitolo, da un’angolazione diversa. La cosa sorprendente è che ogni capitolo è scritto meravigliosamente e racconta comunque, e sempre, qualcosa di sorprendente, di toccante, di significativo.

La narrazione è sviluppata in ordine cronologico, e da un personaggio all’altro, e da un capitolo all’altro, non solo assistiamo ai fatti più salienti dell’esistenza di Holly Sikes, la protagonista, per l’appunto, ma conosciamo anche le persone che più sono state importanti nella sua vita, perché l’autore ci catapulta nella loro mente, con la narrazione in prima persona. E magari all’inizio di un nuovo capitolo non sappiamo subito come Holly entrerà a far parte della vicenda, ma presto fa la sua comparsa, e abbiamo modo di osservarla da fuori, per scoprire come è cambiata con il passare del tempo, e che cosa dunque è stato di quella ragazzina appassionata che abbiamo incontrato all’inizio dell’opera.

Ogni capitolo è un pezzo di bravura, in cui Mitchell non solo ci offre la propria capacità straordinaria di cambiare registro, ma ci racconta sempre vicende altrettanto straordinarie, vissute da personaggi dotati di grande profondità. Un esempio? Provate a farvi un giro in automobile in compagnia di un reporter di guerra in Iraq, insieme ai suoi due aiutanti, in un Paese dilaniato dalla guerra, sotto la costante minaccia di morire. Oppure immergetevi nell’esistenza malinconica di un fu grande scrittore, impegnato a mandare avanti la propria vita e a mettere insieme i cocci dopo il proprio più grande errore.

E in mezzo e attraverso a queste vicende, che sono del tutto plausibili e ci vengono narrate in modo immersivo (usiamo questa parola che va tanto di moda, visto che per Mitchell è quanto mai azzeccata), si sviluppa la trama riguardante una guerra tra due razze di soggetti immortali, una per natura propria, e l’altra per capacità acquisita in danno di altri. E’, ovviamente, tra le vicende narrate, l’unica priva di ogni plausibilità e quella che consegna l’intera opera al genere fantasy, eppure Mitchell riesce a rendercela vera, e a farci procedere nella lettura nella famelica attesa di conoscere quale sarà la sorte della povera Holly, coinvolta proprio malgrado in una lotta multisecolare, la cui vita interseca le vicende non solo dei personaggi di questo libro, ma anche degli altri libri di Mitchell (cervellotico e assolutamente grandioso!).

Negli ultimi due anni, ho letto diversi libri di David Mitchell, e nessuno di essi, finora, mi ha deluso. Anzi, per la verità, tutti, nessuno escluso, mi hanno fatto adorare il tempo speso nella loro lettura. Che si tratti di descrivere le pene dalle quali è afflitto un adolescente alle prime esperienze amorose tartassato dai compagni di scuola (“A casa di Dio”) o quelle che avvelenano l’animo di un uomo di mezza età che sta venendo a patti con il concetto che forse non tornerà mai più sulla cresta dell’onda (uno dei protagonisti de Le ore invisibili), Mithcell riesce a coinvolgerci, a divertirci nel senso più vasto del termine e a dirci anche qualcosa di significativo, che magari ci potrà tornare utile.

Un bel libro anche questo? Un eccellente libro, direi, grazie al quale incontrerete un sacco di personaggi davvero notevoli, portati alla vita da un grande autore.

Paradise Sky

Alla fine dello scorso mese di maggio, Joe Lansdale è stato nella mia città, nel tardo pomeriggio di un lunedì, dopo una giornata trascorsa al Salone del Libro di Torino.

Mi ero appostato tra il pubblico in una posizione piuttosto strategica, dalla quale avrei potuto seguire la conferenza senza difficoltà, quando l’ospite fosse arrivato.

Per la verità, da quella posizione mi sono anche potuto godere il suo ingresso in sala, un uomo piuttosto in forma, un po’ più in là della mezza età, ma dal passo sciolto, vestito di un paio di jeans e di un giubbotto con la scritta Gotham City sulla schiena. E quando riempi una sala di persone che ti aspettano e tu ti presenti bello tranquillo e con un giubbotto del genere, ho pensato, allora hai prorpio raggiunto l’apice.

Ad ogni modo, è seguita una conferenza interessante, in cui Lansdale si è lasciato condurre dalle domande del suo abituale traduttore italiano, Seba Pezzani. Così, il pubblico ha potuto sentire qualche considerazione dell’autore texano in merito al suo paese, e in particolare sul Texas Orientale (con caratteristiche del tutto peculiari, ha tenuto a precisare, e con nulla a che spartire con quello occidentale), sulla situazione degli Stati Uniti in generale, sul razzismo, sulle sue storie e sui suoi personaggi preferiti. E rispondendo alla domanda su quale fosse il suo libro preferito, ha sciorinato i titoli che mi sarei aspettato (In fondo alla palude, Bubba Ho Tep e quelli di Hap e Leonard) e uno che proprio non mi sarei aspettato: Paradise Sky.

Quest’ultimo lo avevo iniziato e abbandonato dopo poche decine di pagine qualche anno fa. Avevo avuto la netta impressione che Lansdale, in quel libro, avesse ben poco da dire e lo stesse dicendo menando il can per l’aia a suon di metafore “colorite” ma alla lunga poco spiritose e con dialoghi concepiti con la stessa finalità.

Sentire quel titolo citato tra i suoi preferiti mi ha incuriosito e così l’ho cominciato di nuovo, qualche giorno dopo.

Certo, l’impressione che il libro avrebbe ben potuto essere più corto è rimasta. E devo dire che lo snodo centrale della storia, incentrato su una scelta del protagonista che mi continua a sembrare davvero stupida, continua a convincermi per nulla.

A parte questo però, se non fossi andato a quella conferenza mi sarei perso davvero un buon libro, di quelli scritti con il cuore e per questo capaci di emozionare.

Siamo negli anni successivi alla Guerra Civile americana, nel Texas orientale tanto caro a Lansdale, appunto, dove un ragazzo nero e suo padre, due ex schiavi, sono intenti a tirare a campare con i magri proventi della loro terra.

Spedito in paese a far provviste, il ragazzo guarda con un po’ troppa insistenza una parte particolarmente attraente del corpo di una donna bianca, il marito se ne accorge, la prende male e giura vendetta. Sarà la rovina per la vita del ragazzo. O forse la sua fortuna?

Nel corso della storia, il protagonista cambia da contadino a pistolero, a soldato dell’unico reggimento di cavalleria costituito da neri dell’esercito americano, a buttafuori in locali sordidi, per poi tornare di nuovo pistolero, ma con la speranza di potersi un giorno comprare una fattoria tutta sua.

Trascorre del tempo dormendo sotto le stelle, a lavorare in un ranch, in un forte nel mezzo del territorio indiano e in un paio di paesini davvero molto…caratteristici.

Lansdale mostra al lettore una vasta gamma di situazioni, con l’intento di rappresentare in modo preciso soprattutto in quale considerazione fosse tenuta la vita di un uomo di colore all’indomani della fine della guerra. In sintesi, in nessuna considerazione. Il protagonista subisce sulla propria pelle ogni genere di violenza, e spesso proprio per mano di quell’uomo convinto di dover riparare un imperdonabile torto inferto alla propria signora. Finise addirittura abbandonato in mezzo al deserto, chiuso dentro una pelle di vacca, in attesa che il sole gliela faccia aderire addosso fino a fargli fuoriuscire le viscere.

Devo dire che l’espediente funziona. Perché nessuno, penso, potrebbe resistere al racconto di una persecuzione tale da privare il protagonista di ciò che gli è più caro, senza provare un moto di autentica pietà nei suoi confronti. Alla fine la differenza la fa solo davvero il colore della pelle, e Lansdale questa verità così cruda la sbatte in faccia al protagonista e al lettore senza metterci troppi fronzoli, quando uno dei persecutori lo dice chiaro: “Se non foste stati neri…”

E quella tendenza a mettere in bocca a ciascun personaggio, anche alle gentili signore, dei commenti a dir poco coloriti, alla fine mi è parso un modo per far intendere che anche il più leggendario dei pistoleri alla fine non riesce a sfuggire all’attrazione gravitazionale delle umane miserie. Un far west fatto di grandi uomini con grandi difetti, insomma, o forse, di uomini e basta.

In conclusione, ho riso di gusto, mi sono arrabbiato, e mi sono quasi commosso. Non mi succedeva da un po’. Quindi, dopo tutto, alla fine Lansdale, nel considerarlo uno dei suoi migliori, poteva avere ragione.

Guanto di sfida

E così alla fine ho fatto un esperimento di lettura. Non nel senso che ho letto qualcosa io di fuori dagli schemi, ma che ho preso una mia amica, e ne ho fatto una cavia.

Il gioco è nato più o meno un paio di mesi prima di Natale.

Non mi capacitavo che, benché si considerasse una lettrice forte, non avesse mai sentito nominare Raymond Chandler.

Ora, va bene tutto, ma per quanto mi riguarda un lettore che possa considerarsi degno di rispetto dovrebbe non solo apprezzare Chandler, ma essere pronto a recitare a memoria gli incipit de Il Grande Sonno, de La sorellina, di Addio, mia amata e de Il lungo addio, anche in stato di ebbrezza.

Così ho preso la mia prima copia (ne possiedo almeno tre) de Il grande sonno, e l’ho consegnata alla mia amica, nella convinzione che le avrei finalmente fatto vedere la luce, e che non avrebbe mai saputo come ringraziarmi in modo adeguato.

Nel giro di pochi giorni, ho ricevuto la restituzione del libro.

Pensavo che sarebbe stato accompagnato dal suo sorriso estasiato e dall’affermazione che lei non riuscirà mai a prestarmi un suo libro che possa sortire un simile, soddisfacente, effetto, su di me. E invece…invece, il primo romanzo in cui compare Philip Marlowe è stato liquidato come “illeggibile polpettone”.

Ci sono rimasto molto male. Perché francamente, nella mia carriera di lettore credo di essermi divertito davvero poche volte così tanto come quando mi sono aggirato per Los Angeles in compagnia della creatura di Chandler.

Avevo quindi pensato di desistere, che avrei dovuto perdere ogni speranza.

E invece, che cosa ho fatto?

Ho alzato la posta.

Non ti piace un caposaldo della letteratura americana dell’inizio del secolo scorso, che ha rappresentato il riferimento per tanti scrittori venuti in seguito, che ha spinto in tanti, senza mai riuscirci davvero, a tentare di emulare la voce narrante più ammaliante che mi sia capitato di leggere?

E va bene. E allora proviamo con il primo romanzo di David Mitchell, “Nove gradi di libertà”.

L’avevo appena finito di leggere e l’ho usato come una sorta di “tutto o niente.”

Il romanzo di Mitchell è problematico fin dal suo inquadramento – si tratta di un romanzo o di una serie di racconti concatenati? – e per quanto riguarda il contenuto, a mio avviso è tanto divertente ed emozionante quanto cervellotico. E’ raccontato sfruttando tanti registri diversi, presenta tanti personaggi che catturano il lettore fin da subito, ma richiede al lettore una più che discreta attenzione per l’individuazione dei nessi presenti fra i vari capitoli e per la conseguente ricostruzione della vicenda complessiva, che travalica i limiti dei singoli episodi e rappresenta la loro somma.

Insomma, se non sei riuscita a divertirti con qualcosa che avrebbe dovuto catturarti fin dalle prime righe, vediamo se la tua mente si lascia incantare da un piacere più difficile da afferrare.

Come sarà andata a finire?

Sono io stesso in attesa di una risposta.

Prey

Confesso di essermi avvicinato a questo nuovo titolo Netflix senza grosse pretese. Avevo visto poche immagini del trailer, e mi pareva che potesse rappresentare un buon diversivo per l’ora e mezza della sua durata.

In sintesi, la storia è questa: Roman si trova con il fratello e tre amici in un parco nazionale, da qualche parte, nel cuore della Foresta Nera. Si sta per sposare, e qualcuno ha pensato che un po’ di canoa, qualche bagno nel torrente che attraversa la foresta e una passeggiata nel bosco potessero rappresentare un buon diversivo rispetto alla solita serata passata ai piedi di un palco, in attesa del prossimo spogliarello.

Appare subito chiaro che qualche ruggine rende i rapporti tra i membri della spedizione un po’ meno che idilliaci.

In particolare, Roman sembra in attesa che il fratello gli risolva la situazione lavorativa, assumendolo nella compagnia che ha fondato, ma gli amici sembrano dubitare del suo effettivo impegno in quel senso.

Il programma della giornata subisce un primo piccolo scossone quando il gruppo sente un colpo di fucile esplodere a distanza troppo ravvicinata per non destare qualche preoccupazione.

La situazione degenera in modo irreparabile quando il gruppo di amici, raggiunte le auto e accingendosi al rientro, finisce sotto una pioggia di proiettili e uno di loro finisce ferito.

E’ l’inizio di una caccia all’uomo senza tregua, condotta in modo implacabile da una giovane donna vestita di nero, munita di un fucile di precisione.

Per qualche minuto, all’inizio del film, ho temuto di trovarmi dalle parti di una scopiazzatura di Deliverance, ma Prey si è rivelato ben presto capace di prendere una strada propria.

Serrato nel ritmo, suggestivo nell’ambientazione, induce a sussultare a ogni ramo scricchiolante e si prende anche il tempo per dire la sua sull’effettivo valore di certi legami familiari e amicali.

Man mano che si susseguono i colpi del cecchino, il gruppo di amici perde di compattezza e arriva a sgretolarsi per l’incapacità dei singoli di controllare le proprie reazioni. C’é chi piagnucola, chi vorrebbe lasciare indietro i feriti, chi fin da subito ritiene che separarsi sia una buona idea.

Anche la storia del cecchino, rivelata verso il finale, è quella di qualcuno che ha reagito al peggior trauma possibile nel peggior modo possibile. In definitiva, Prey ci serve un campionario di neppure una decina di persone, contando anche la killer, e solo un paio di loro dimostrano di avere almeno un minimo di autocontrollo o la capacità di resistere e tenere in minima considerazione il prossimo, pur considerato amico fino al fotogramma precedente.

Un’ora e mezza di intrattenimento serrato? Di sicuro, ma anche un film che ci lascia con una sensazione di amara desolazione.

Never Die di Rob J. Hayes

Cinque guerrieri si risvegliano da un sonno senza sogni solo per ritrovarsi davanti a un ragazzino dallo sguardo strano, il collo fasciato da una sciarpa rossa, che dice loro di averli riportati in vita per compiere una missione.

Per la verità, i cinque non sono proprio vivi, ma “per lo più vivi”, come precisa loro il ragazzino, e potranno aspirare a tornare a ciò che erano prima del trapasso solo accettando di compiere la missione che il ragazzino ha ricevuto niente meno che da un dio della morte: uccidere l’imperatore che da anni affligge le terre dei dieci regni.

Abbiamo una spadaccina che ha fatto il voto di non estrarre mai la propria seconda lama, ma che per la verità se la cava egregiamente anche solo con la prima, un gigantesco lottatore, autore di imprese mitiche, che tutti però paiono aver dimenticato, un esperto di arti marziali che ha giurato di non uccidere, un cecchino ammalato di lebbra a cui è rimasto un solo occhio e un bandito, abile nel combattimento, ma a disagio in un gruppo costituito da “veri eroi”, lui che ha sempre scelto la strada più facile e non certo la più onesta.

Questo fantasy intriso di elementi orientali mi ha tenuto compagnia nelle ultime settimane. E’ stata una lettura particolarmente piacevole e divertente, per la simpatia dei personaggi e per la trama avvincente.

In meno di trecento pagine, e dunque con davvero poche parole, e descrizioni ridotte al minimo a tutto vantaggio del ritmo, l’autore dimostra che è possibile creare non solo un mondo, ma anche la sua storia e le sue leggende, semplicemente evocandole, e lasciando al lettore di colmare “i vuoti” in virtù dei suggerimenti disseminati nel corso della narrazione.

Cinque personaggi davvero caratterizzati, per i quali si sviluppa subito una forte simpatia, destinati a compiere un percorso narrativo che li cambierà davvero, attraversando una terra segnata fino all’impoverimento e alla devastazione dalla volontà di un tiranno, mentre si palesa la presenza di esseri soprannaturali

“Never Die” è semplice, divertente, diretto, e ha uno sviluppo finale forse in parte prevedibile, ma che in realtà conferma l’intelligenza spesa dall’autore nel concepirlo.

Che io sappia, non è stato tradotto in italiano, ma non ho avuto problemi a leggerlo in inglese, benché la mia padronanza della lingua sia piuttosto rudimentale.

Fa parte di una serie di romanzi “stand-alone”, tutti ambientati nello stesso universo narrativo, ma leggibili per l’appunto in modo indipendente l’uno dall’altro. Così, per una volta, non saremo schiavizzati da una interminabile serie di volumi semi-quasi-maforsenon autoconclusivi.

Ho già messo il prossimo nella mia wish list. Consigliatissimo.

Caccia al libro

Sono stato rapido, fulmineo, privo di esitazioni. Nessuna separazione fra pensiero e azione. Era questione di secondi, perché sapevo per certo che qualcun altro avrebbe potuto rubarmelo e sarei rimasto ancora una volta a bocca asciutta.

Non questa volta, mi sono detto.

Questa volta, non mi sfuggirà.

La gloria sempiterna?

Il Santo Graal?

Tutto sommato, non saprei cosa farmene, con le attuali chiusure e restrizioni.

Quindi, qualcosa di meglio, a conti fatti.

Questa mattina il postino mi ha recapitato una copia, usata, naturalmente, di “Lazzaro, vieni fuori”, il primo romanzo di Andrea G. Pinketts, esaurito ovunque e rintracciabile su ebay solo a prezzi improponibili, che io mi sono invece aggiudicato a poco più del prezzo di un quotidiano.

Ma come ho potuto raggiungere un simile traguardo? Come ho potuto accaparrarmi una copia di un libro tanto raro, e in condizioni più che discrete, a un prezzo stracciato?

Siccome sono di buon umore, compirò l’imprudenza di svelarvi uno dei segreti delle mie tecniche di caccia.

A pensarci bene, ha più che altro a che fare con la pesca. Si lancia la lenza, e la si lascia lì, quasi dimentichi di averla messa in acqua; poi si attende, con noncuranza, il minimo segnale e allora…quando la preda ha abboccato all’amo, occorre recuperare senza esitazioni, senza il minimo indugio.

In altre parole, mi affido al sistema di avvisi di disponibilità presenti su molti siti che vendono libri. Il mio oggetto del desiderio è indisponibile, al momento? Bene, avvertitemi quando sarà di nuovo acquistabile. Basta lasciare la propria mail. Io, per la verità, ho fatto anche di più, creando un filtro e una apposita cartella per questo tipo di messaggi, così che non vadano dispersi tra le promozioni di cibo per cani e i buoni sconto. Forse un po’ da maniaci, in effetti.

Così, la scorsa settimana, la mia attenzione è stata catturata proprio dall’arrivo di una di quelle mail, un avviso di disponibilità.

“Chissà cosa sarà?” mi sono chiesto, solo per scoprire che si trattava proprio di uno dei miei più agognati oggetti di desiderio.

Poi, è stata una questione di attimi.

La stessa mail avrebbe potuto raggiungere la caselle di posta di un numero indefinito di altri cacciatori, proprio come me ansiosi di mettere le mani su quel raro cimelio.

Il resto, come si suol dire, è storia. Mentre gli altri stavano ancora gingillandosi con le ultime righe della mail, io avevo già inserito le credenziali Paypal per effettuare il pagamento. E oggi il libro è giunto fino a me

“I fatti, i luoghi e i personaggi di questo romanzo sono puramente immaginari. Mi si potrebbe obiettare che esiste una regione chiamata Trentino Alto Adige e un paesino chiamato Bellamonte. Mi sento obbligato a specificare che sia il Trentino che Bellamonte, come noto, li ho inventati io.” Andrea G. Pinketts

Ora che vi ho svelato uno dei segreti della caccia, fatene buon uso. Io mi vado a godere un po’ di Pinketts.

Dove trovo nuovi libri

Uno dei piaceri più acuti nella vita di un lettore, per quello che mi riguarda, è andare a caccia di nuovi libri. Si tratta di un’attività tanto intrigante quanto lo è la lettura in sé. E poi…si tratta di un’attività sostanzialmente interminabile. E’ come il filo di Penelope, o le puntate di Beatiful.

Là fuori, da qualche parte, c’é di sicuro un libro che fa per noi, il che non significa che sia solo scritto in modo tale da intrigarci, ma anche che si addice al momento emotivo che stiamo vivendo. Il nostro compito consiste solo nello scovarlo. E qui sta il difficile, almeno per me.

Perché diffido delle recensioni dei lettori su Amazon, delle rubriche di libri sui quotidiani, che mi paiono sempre scrittre da recensori che non hanno mai neppure sfogliato il libro di cui parlano, e poi perché in genere mi piace bazzicare letture non proprio mainstream.

Grazie al cielo c’é Internet. E, come mi sono ritrovato a dire spesso negli ultimi anni, se Internet, così come la intendiamo ora, ci fosse stata nei miei anni del liceo, forse la mia vita sarebbe stata diversa. Non so se davvero migliore, ma di certo diversa, perché la facilità di reperire testi, e di essere anche solo informato della loro esistenza, sarebbe stato di certo un valore aggiunto nella vita di un giovane abitante di una città di provincia.

E allora, dove vado a caccia oggi, di nuovi titoli da infilare nel mio carniere dei libri da leggere?

Continua a leggere

Bastardi in salsa rossa, ovvero una lettura da… zona rossa

“Bastardi in salsa rossa” è il secondo libro di Lansdale che leggo quest’anno. Non mi succedeva da qualche tempo, di frequentare con tanta assiduità l’autore texano, che per la verità ultimamente aveva perso terreno nella lista dei miei preferiti.

E’ un caso che io sia tornato dalle sue parti un’altra volta, a breve distanza temporale dalla precedente lettura?

Da qualche giorno aprivo e chiudevo il mio lettore di ebook dopo aver letto solo poche pagine di vari romanzi, giudicati o troppo impegnativi, o troppo poco divertenti.

E le notizie inerenti il dilagare senza freno dei contagi mi impedivano di trovare il giusto stato d’animo per affrontare in pace una buona lettura.

Ho così scoperto di avere voglia di tornare in un luogo già conosciuto, in compagnia di qualcuno in grado di catturare la mia attenzione e di farmi divertire nel contempo. Perché di una buona risata sentivo davvero la mancanza e il bisogno.

E così ho recuperato dallo scaffale dove ho allineato le avventure di Hap & Leonard questo “Bastardi in salsa rossa”, acquistato usato durante l’estate.

I nostri protagonisti sono ingaggiati da un’anziana signora di colore per far luce sull’uccisione del proprio figlio, picchiato a morte da alcuni poliziotti, dopo aver protetto la giovane sorella dalle loro attenzioni.

Le indagini condurranno i nostri amici nel cuore di un quartiere-ghetto, popolato da uomini e donne disperati e pronti a tutto pur di sbarcare il lunario, fin dalla più tenera età.

Premesso che il titolo nulla ha a che vedere con la trama, devo dire che la lettura di questo breve romanzo ha sortito l’effetto desiderato. L’ho letto soprattutto alla sera, e le smargiassate dei suoi protagonisti mi hanno impedito di subire l’influenza del silenzio proveniente da fuori, rotto solo, di tanto in tanto, dalla sirena di qualche ambulanza.

Se tutto l’impianto giallo è piuttosto ovvio, tanto che lo stesso Hap, nel ricostruire i passaggi che l’hanno condotto a individuare i colpevoli, ammette di non essere certo Sherlock Holmes, ritrovare i due amiconi impegnati a fare quello che sanno fare meglio, ossia fracassare ossa scambiandosi battute, ha sortito un effetto terapeutico.

Perché cosa ci può essere di meglio che avere chiaro chi sono i cattivi e disporre dei mezzi per neutralizzarli? E il tutto mentre si litiga per chi ha finito l’ultimo dannato pacco di quei fantastici biscotti alla vaniglia?

Qui Hap e Leonard mettono al loro posto una banda di delinquenti adolescenti, insegnano al proprietario di un bar e a quei buzzurri dei suoi clienti che ci può essere sempre qualcuno più buzzuro di te, e aiutano un’anziana signora a ottenere giustizia con l’aiuto di una vampira nana vecchia di quattrocento anni, che forse è solo una ragazzina impegnata a sopravvivere in un quartiere difficile.

Insomma, di certo non è il migliore episodio della serie, e forse il miglior episodio della serie Lansdale l’ha scritto per primo, ma mi ci si sono divertito parecchio. Se volete passare un paio di serate svagate alla faccia del lockdown, è quello che fa per voi.

Chiusi dentro

Le prime pagine di questo libro di John Scalzi ci introducono a un mondo che ha dovuto affrontare una pandemia planetaria, che si è diffusa in una serie di ondate.

Un’introduzione di poche pagine, che qualche mese fa, poteva essere marzo o aprile, mi fu sufficiente a interrompere la lettura, perché ritrovare in un’opera di fantasia ciò che stava appena oltre la porta di casa mi risultava insopportabile.

Ho ripreso in mano (si fa per dire, visto che ho una versione ebook) il libro in questi giorni, forse anche per scoprire se sarei riuscito a superare quella mia reazione, per trovarmi immerso in una storia molto diversa da quella che mi aspettavo.

“Chiusi dentro”, infatti, non appartiene alla fantascienza apocalittica, non parla dell’estinzione della nostra razza a causa di un’epidemia ed è ben lungi dall’avere un tono triste. Infatti, l’effetto dell’epidemia di Haden, questo il nome della malattia inventata da Scalzi, è di imprigionare all’interno del proprio corpo chi ne è affetto, per un definitivo danno neurologico che impedisce il movimento ma non la coscienza e la ragione.

Il libro incomincia qualche anno dopo la diffusione del morbo, quando la comunità Haden, composta dalle vittime del virus, è diventata così numerosa e organizzata da divenire parte della società. Sì, perché gli Haden ora hanno un intero mondo vituale in cui sviluppare la loro vita sociale e molte aziende hanno sviluppato la tecnologia necessaria a creare dei “trasporti personali”, i cosiddetti Threep, robot comandati dalla coscienza delle persone “chiuse dentro” i loro corpi.

Per la verità, alcuni Haden sono “guariti”, hanno riacquistato il controllo del proprio corpo e guadagnato anche una facoltà in più, ossia quella di ospitare la coscienza di altri Haden, servizio che rendono a pagamento, sotto la qualifica di “Integratori”.

L’equilibrio raggiunto è però turbato dall’introduzione di una nuova Legge, destinata a tagliare i fondi statali alla comunità Haden.

Un uomo apparentemente uccisosi tagliandosi la gola apre la vicenda, con l’indagine condotta dal protagonista, un nuovo agente dell’FBI, che è anche uno degli Haden più famosi del mondo.

Per quanto ritenga John Scalzi un autore molto brillante e stimolante, mi ritrovo sempre a pensare che alla sua scrittura manchi qualcosa per essere davvero di mio gusto.

Niente da dire, la storia scorre che è un piacere e riesce a far passare con grande facilità riflessioni e concetti che ad autori meno bravi richiederebbero di certo una montagna di parole in più di quante invece non ne usi lui, però… Però leggendo questo sofisticato poliziesco fantascientifico mi sono ritrovato spesso a ritenerlo troppo “freddo”. Insomma, d’accordo: alcuni scienziati hanno trovato il sistema di fornire nuovi corpi (robot) agli haden, ma le problematiche relazionali legate all’impossibilità di impiegare i propri corpi non sono neppure accennate.

Invece, Scalzi si concentra sulla rappresentazione di un mondo fatto di grandi aziende, guidate da imprenditori senza scrupoli, che hanno individuato nella tragedia di molti malati una irripetibile fonte di guadagno.

E in questo, l’autore americano ha centrato il bersaglio, rappresentando con efficacia, e in anticipo di qualche anno, i tempi che ci ritroviamo a vivere oggi.

Per il resto, Scalzi ci sorprende con le possibilità offertegli dal mondo di sua creazione. Il gioco del trasferimento di coscienze è sfruttato sia per la costruzione della trama poliziesca sia per la stessa conduzione dell’indagine, con il protagonista capace di migrare da un corpo robotico all’altro inseguendo le tracce lasciate dai colpevoli per tutti gli Stati Uniti. Un ottimo espediente che regala al lettore squarci di numerose realtà.

Un libro brillante? Senza alcun dubbio. Divertente? Senz’altro. Ma a parte che di una vera trama “sentimentale”, che forse mi avrebbe reso maggiormente empatico rispetto alla vicenda degli Haden, ho sentito anche la mancanza di qualche scontro in più tra robot. Perché se li infili in un romanzo, per come la vedo io, il minimo che puoi fare è fargli fare più danni possibile, e impegnargli in battaglia più spesso che puoi.