Paradise Sky

Alla fine dello scorso mese di maggio, Joe Lansdale è stato nella mia città, nel tardo pomeriggio di un lunedì, dopo una giornata trascorsa al Salone del Libro di Torino.

Mi ero appostato tra il pubblico in una posizione piuttosto strategica, dalla quale avrei potuto seguire la conferenza senza difficoltà, quando l’ospite fosse arrivato.

Per la verità, da quella posizione mi sono anche potuto godere il suo ingresso in sala, un uomo piuttosto in forma, un po’ più in là della mezza età, ma dal passo sciolto, vestito di un paio di jeans e di un giubbotto con la scritta Gotham City sulla schiena. E quando riempi una sala di persone che ti aspettano e tu ti presenti bello tranquillo e con un giubbotto del genere, ho pensato, allora hai prorpio raggiunto l’apice.

Ad ogni modo, è seguita una conferenza interessante, in cui Lansdale si è lasciato condurre dalle domande del suo abituale traduttore italiano, Seba Pezzani. Così, il pubblico ha potuto sentire qualche considerazione dell’autore texano in merito al suo paese, e in particolare sul Texas Orientale (con caratteristiche del tutto peculiari, ha tenuto a precisare, e con nulla a che spartire con quello occidentale), sulla situazione degli Stati Uniti in generale, sul razzismo, sulle sue storie e sui suoi personaggi preferiti. E rispondendo alla domanda su quale fosse il suo libro preferito, ha sciorinato i titoli che mi sarei aspettato (In fondo alla palude, Bubba Ho Tep e quelli di Hap e Leonard) e uno che proprio non mi sarei aspettato: Paradise Sky.

Quest’ultimo lo avevo iniziato e abbandonato dopo poche decine di pagine qualche anno fa. Avevo avuto la netta impressione che Lansdale, in quel libro, avesse ben poco da dire e lo stesse dicendo menando il can per l’aia a suon di metafore “colorite” ma alla lunga poco spiritose e con dialoghi concepiti con la stessa finalità.

Sentire quel titolo citato tra i suoi preferiti mi ha incuriosito e così l’ho cominciato di nuovo, qualche giorno dopo.

Certo, l’impressione che il libro avrebbe ben potuto essere più corto è rimasta. E devo dire che lo snodo centrale della storia, incentrato su una scelta del protagonista che mi continua a sembrare davvero stupida, continua a convincermi per nulla.

A parte questo però, se non fossi andato a quella conferenza mi sarei perso davvero un buon libro, di quelli scritti con il cuore e per questo capaci di emozionare.

Siamo negli anni successivi alla Guerra Civile americana, nel Texas orientale tanto caro a Lansdale, appunto, dove un ragazzo nero e suo padre, due ex schiavi, sono intenti a tirare a campare con i magri proventi della loro terra.

Spedito in paese a far provviste, il ragazzo guarda con un po’ troppa insistenza una parte particolarmente attraente del corpo di una donna bianca, il marito se ne accorge, la prende male e giura vendetta. Sarà la rovina per la vita del ragazzo. O forse la sua fortuna?

Nel corso della storia, il protagonista cambia da contadino a pistolero, a soldato dell’unico reggimento di cavalleria costituito da neri dell’esercito americano, a buttafuori in locali sordidi, per poi tornare di nuovo pistolero, ma con la speranza di potersi un giorno comprare una fattoria tutta sua.

Trascorre del tempo dormendo sotto le stelle, a lavorare in un ranch, in un forte nel mezzo del territorio indiano e in un paio di paesini davvero molto…caratteristici.

Lansdale mostra al lettore una vasta gamma di situazioni, con l’intento di rappresentare in modo preciso soprattutto in quale considerazione fosse tenuta la vita di un uomo di colore all’indomani della fine della guerra. In sintesi, in nessuna considerazione. Il protagonista subisce sulla propria pelle ogni genere di violenza, e spesso proprio per mano di quell’uomo convinto di dover riparare un imperdonabile torto inferto alla propria signora. Finise addirittura abbandonato in mezzo al deserto, chiuso dentro una pelle di vacca, in attesa che il sole gliela faccia aderire addosso fino a fargli fuoriuscire le viscere.

Devo dire che l’espediente funziona. Perché nessuno, penso, potrebbe resistere al racconto di una persecuzione tale da privare il protagonista di ciò che gli è più caro, senza provare un moto di autentica pietà nei suoi confronti. Alla fine la differenza la fa solo davvero il colore della pelle, e Lansdale questa verità così cruda la sbatte in faccia al protagonista e al lettore senza metterci troppi fronzoli, quando uno dei persecutori lo dice chiaro: “Se non foste stati neri…”

E quella tendenza a mettere in bocca a ciascun personaggio, anche alle gentili signore, dei commenti a dir poco coloriti, alla fine mi è parso un modo per far intendere che anche il più leggendario dei pistoleri alla fine non riesce a sfuggire all’attrazione gravitazionale delle umane miserie. Un far west fatto di grandi uomini con grandi difetti, insomma, o forse, di uomini e basta.

In conclusione, ho riso di gusto, mi sono arrabbiato, e mi sono quasi commosso. Non mi succedeva da un po’. Quindi, dopo tutto, alla fine Lansdale, nel considerarlo uno dei suoi migliori, poteva avere ragione.

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